L’Armata dei Sonnambuli

Wu_Ming_SonnambuliIl ritorno dei Wu Ming, agognato, atteso, arrivato per il più “storico” dei loro romanzi. A chiudere (sostengono sul loro blog e noi speriamo solo metaforicamente) una lunga avventura artistica, i Wu Ming parlano della rivoluzione per antonomasia, quella dell’immaginario in cui tutto si è compiuto e tutto (forse) è fallito. La rivoluzione Francese. L’ambientazione è delle migliori: il terrore rosso e la restaurazione termidoriana.
Quale appassionato di storia non avrebbe voluto vivere nella Parigi post ’89? Chi non avrebbe voluto ascoltare la viva voce di Robespierre o partecipare ai funerali di Marat o guardare il fulgido incedere di Saint Just nella folla? Poi io faccio parte della generazione cresciuta a Lady Oscar e Tulipano Nero (e i Wu Ming perdonino la banalità di massa) e di lì la domanda: ma Scaramouche è esistito davvero o era una leggenda popolare in un momento in cui per il popolo tutto sembrava possibile?

Come sempre nei romanzi del collettivo, si fa fatica a carburare all’inizio: informazioni, personaggi, fatti, nomi, toponimi, ti arrivano addosso in quantità inaudita (e ti chiedi: saranno anche cinque ma come fanno a tenere il filo?). Finché i fili della trama non si riannodano, il quadro inizia a comporsi, i pezzi del puzzle coincidono e a questo punto l’immagine è fulgida.

La ricostruzione è perfetta, come sempre. Riesci persino a sentire gli odori del Faobourg Saint Antoin, dei vicoli di Parigi o della piazza dove Madama Ghigliottina spruzza di sangue gli astanti.
I personaggi sono magistralmente costruiti, come sempre per i Wu Ming. Quattro protagonisti della storia minore – che non passa alla Storia ma che forse la Storia l’hanno cambiata – di estrazione differente che parlano, pensano, agiscono in modo diverso. Tre i personaggi positivi che combattono il cattivo, l’unico nemico comune, che poi sarà anche il nemico della Francia repubblicana e che alla fine vincono …. Forse.

I luoghi della narrazione, innumerevoli. I vicoli di Parigi, i palazzi del potere, l’Alvernia, sperduta provincia francese reazionaria e refrattaria, Bicetre e le sue stanze ricolme di matti e “disturbati”.

Il tempo della narrazione contenuto: due anni che però nella storia dell’umanità hanno avuto il peso dei secoli.

Romanzo corale, cui tutti hanno una voce sia personaggi positivi che negativi. La struttura è costruita tra narrazione e citazione di documenti dell’epoca. Ai capitoli narrativi si affiancano capitoli di largo respiro, meravigliosi come “ Marea” dove il flusso storico sembra inarrestabile e gli eventi inevitabili anticipazioni di una morte annunciata (Gabo che ci guarda dalla sua Macondo, non me ne voglia!).

Il romanzo si chiude con un dettagliato elenco dei personaggi e della loro storia reali: elenco di fonti, fatti, testimonianze. Tutti i personaggi sono storici, ovvero sono esistiti davvero, nessuno è inventato, solo i Wu Ming hanno romanzato il “realmente accaduto” e intrecciato le loro storie in maniera credibile ma con qualche se e qualche ma – vero limite di questo lavoro: a volte i fatti per coincidere sembrano un po’ forzati, non c’è la totale naturalezza narrativa di “Q”, la freschezza di “54” o il coinvolgimento di “Manituana”.

Questo romanzo è tanta, tantissima roba: i livelli di lettura innumerevoli a complicare la narrazione della storia e fornire l’interpretazione di una voglia di ribellione che cova sempre inespressa e serpeggiante.

Il romanzo è anarchico in senso pieno. I personaggi vivono tutti una ribellione alla loro condizione, anche il nemico che vuole apparentemente restaurare la monarchia, in realtà lavora con il solo unico scopo di seminare il caos. Caos cui i tre buoni si oppongono, contro però la loro provenienza sociale, rompendo regole e schemi, quindi in totale anarchia. Anarchico è il finale: non sappiamo cosa realmente sarà dei sopravvissuti, li affidiamo al loro fato e li lasciamo andare rassegnati: in qualche modo se la caveranno.

In un mondo di regole in continuo cambiamento ovvero senza regole, in cui l’ultimo arrivato decide senza legittimazione dei destini di tutti, tutto è possibile (e attenzione, parliamo della Francia post ’89).

La ricostruzione delle teorie pseudo-scientifiche che corrono parallele al secolo dei lumi (marginali il razionalismo degli enciclopedisti e le teorie politiche rousseauiane e questo per me è un po’ un limite) offre allo stesso tempo l’espediente narrativo e il secondo livello di lettura, ovvero l’esplicazione della forza di volontà del più forte (che è sempre più ricco e più colto) finalizzata a dominare gli uomini deboli (ignoranti e poveri).

I temi toccati, un numero esagerato (forse un po’ troppi?): il razionalismo contro l’oscurantismo della religione, l’isolamento del diverso e del malato (di mente, dell’alienato che nell’isolamento trova rifugio), degli ultimi che con qualche guizzo eroico possono cambiare le cose, della logica del potere camaleontico, degli strumenti di propaganda e della credulità popolare. Poi il tema della donna. Il collettivo da Luther Blisset a Wu Ming non trascura mai il ruolo della donna nella rivoluzione e nei cambiamenti: in questo romanzo le donne lottano perché sia la rivoluzione per i diritti di tutti e tutte, per non tornare ad essere quelle che prima hanno preso la Bastiglia e poi servono solo per cucinare, scaldare letti e crescere figli. Le donne con la D maiuscola che prendono anche le difese di Maria Antonietta per non macchiare il nome della Femmina. Sublime esempio. Grazie Wu Ming.

La lingua di scrittura, poi è eclettica: il narratore degli eventi è popolare e usa un linguaggio “argot”, popolare, dei vicoli e delle bestemmie impastato di vino a poco prezzo e pane raffermo. Aristocratici e intellettuali usano invece un linguaggio elegante, dotto e spesso ipocrita.

Cos’altro aggiungere? Leggetelo per tanti motivi e poi perché in Italia abbiamo ancora pezzi di grande letteratura, magari solo di testa e meno di cuore, ma la scrittura vale comunque la pena. I Wu Ming lo considerano il loro punto di arrivo, io spero che si superino e che nei prossimi lavori il cuore la vinca sulla testa. E poi per me la rivoluzione per antonomasia non l’hanno ancora raccontata.

Consigliato: perché è un grande libro, per ricordare che l’unione fa la forza e che il potere è del popolo (almeno finché conviene)
Sconsigliato: se siete affezionati ai Wu Ming e avete già letto tutto di loro, centellinatelo perché temo che il collettivo cambierà un po’ di cose.

Autore: Wu Ming
Editore: Einaudi Stile Libero
Edizione: 2014
Lunghezza: 796pp.
Prezzo di copertina: 21.00

15 risposte a "L’Armata dei Sonnambuli"

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  1. “Il romanzo si chiude con un dettagliato elenco dei personaggi e della loro storia reali: elenco di fonti, fatti, testimonianze. Tutti i personaggi sono storici, ovvero sono esistiti davvero, nessuno è inventato…”

    ***

    “Nell’atto però di chiudere lo scartafaccio, per riporlo, mi sapeva male che una storia così bella dovesse rimanersi tuttavia sconosciuta; perché, in quanto storia, può essere che al lettore ne paia altrimenti, ma a me era parsa bella, come dico; molto bella. “Perché non si potrebbe, pensai, prender la serie de’ fatti da questo manoscritto, e rifarne la dicitura?” Non essendosi presentato alcuna obiezion ragionevole, il partito fu subito abbracciato. Ed ecco l’origine del presente libro, esposta con un’ingenuità pari all’importanza del libro medesimo.
    Taluni però di que’ fatti, certi costumi descritti dal nostro autore, c’eran sembrati così nuovi, così strani, per non dir peggio, che, prima di prestargli fede, abbiam voluto interrogare altri testimoni; e ci siam messi a frugar nelle memorie di quel tempo, per chiarirci se veramente il mondo camminasse allora a quel modo. Una tale indagine dissipò tutti i nostri dubbi: a ogni passo ci abbattevamo in cose consimili, e in cose più forti: e, quello che ci parve più decisivo, abbiam perfino ritrovati alcuni personaggi, de’ quali non avendo mai avuto notizia fuor che dal nostro manoscritto, eravamo in dubbio se fossero realmente esistiti. E, all’occorrenza, citeremo alcuna di quelle testimonianze, per procacciar fede alle cose, alle quali, per la loro stranezza, il lettore sarebbe più tentato di negarla.”

    Alessandro Manzoni, Introduzione a “I Promessi sposi”

    😀

    A parte quest’obliqua dichiarazione di poetica, recensione molto bella, grazie.

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    1. Pubblico questo racconto [… ] il che può produrre due inconvenienti.
      Il primo, per il lettore: i personaggi, italiani, probabilmente lo interesseranno meno: i cuori italiani son molto diversi dai francesi. Gli Italiani sono schietti, bonaccioni, e, quando non sospettosi o impauriti, dicono ciò che pensano; la vanità non la provano che per accessi; e allora diventa passione e si chiama «puntiglio». Infine,
      la povertà non è fra loro ridicola.

      Il secondo inconveniente è per l’autore.
      Confesso che ho osato lasciare ai personaggi le asperità dei loro caratteri; ma per compenso, lo dichiaro altamente, rovescio il biasimo della morale piú rigida su gran parte delle loro azioni.
      A che scopo attribuir loro la moralità superiore e le grazie del carattere francese? I Francesi amano sopra ogni cosa il denaro e non si lasciano trascinare al peccato né dall’odio né dall’amore. [… ]
      D’altra parte, mi sembra che come procedendo dal Mezzogiorno al Settentrione
      ogni ducento leghe il paesaggio muta di natura e di aspetti, cosí anche il romanzo ha da diversificare.

      Stendhal “La certosa di Parma”

      Wu Ming 1, grazie a te per aver apprezzato la recensione e soprattutto per pubblicare libri che ci fanno ancora godere della letteratura

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      1. Grande citazione, utile a capire come abbiamo messo in pagina, su più livelli, “l’Italia in Francia” tramite Goldoni, Leo e le sue reminiscenze bolognesi, Rota e i gondolieri di Versailles, gli emilianismi nella parlata sanculotta ecc.
        La differenza è che Stendhal ambienta il suo libro in un passato per lui molto recente e non finge di aver trovato Del Dongo in un documento d’epoca, come invece fa Manzoni con Renzo e Lucia tramite l’espediente del manoscritto secentesco nell’Introduzione ai Promessi Sposi. Manzoni chiama “Introduzione”, ma in realtà è già dentro la cornice finzionale del romanzo, e l’estratto del presunto documento è un’invenzione, scritta imitando l’italiano di duecento anni prima. Oggi siamo smaliziati, e sappiamo bene che quello è uno stratagemma narrativo molto frequente nel romanzo storico, anche perché su quella strada si è andati molto avanti, passando per Poe e arrivando alla fiction travestita da saggistica (da Borges ala “Letteratura nazista in America” di Bolano, per fare solo qualche esempio). Oggi sappiamo anche distionguere il documento simulato (la prosa simil-secentesca dell’Introduzione) e i documenti realmente reperiti negli archivi (le gride contro i Bravi riprodotte nel primo capitolo). Anche i famosi “venticinque lettori” a cui Manzoni si riferiva con ironia e diminutio auctoris erano smaliziati e in grado di cogliere la finzionalità e lo stratagemma, perché Manzoni lo riprendeva da Cervantes, da Walter Scott… Il romanzo, dopo un lungo periodo di estrema elasticità nel definirlo, aveva già trovato la propria forma e andava formando il proprio canone. Fino a qualche decennio prima, la confusione tra fiction e non-fiction era frequente, De Foe aveva pubblicato “Robinson Crusoe” travestendolo abilmente da storia vera, tanto che non aveva messo il proprio nome sul frontespizio…
        Questo solo per dire che il quinto atto del nostro romanzo non è chiamato “quinto atto” a caso, ma per segnalare che siamo ancora dentro la cornice del romanzo, lì il gioco prosegue e il lettore è sfidato a compiere le proprie esplorazioni, per capire dove passano i confini dopo la nostra ridislocazione 🙂
        Insomma, noi abbiamo cercato di scrivere un libro che fosse pieno di bombe a tempo, di mine che esplodessero solo al secondo o terzo passaggio, e che una volta terminato, prima o poi chiamasse alla rilettura, grazie anche all’ultima parte “perturbante”.
        Vediamo se ci siamo riusciti.
        Di nuovo grazie!

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      2. oltre la veridicità o meno delle fonti, l’escamotage letterario,la finzione travestita da reale, ho ritrovato in questo romanzo l’attenzione ai minori della storia, l’idea di intrecciare personaggi secondari che però contribuiscono a far cambiare la storia mi è cara sia nella letteratura che nella scienza storica, seguendo la struttura di ricerca de “Lea Annales”. La scuola – francese, non a caso – basandosi sull’evenemenzialità offre lo spunto ideale per l’analisi della quotidianità e la centralità dell’uomo del tempo non del condottiero o del re. Wu Ming in questo sono maestri. Forse per questo la quinta parte è vera almeno in quanto perturbante… 😉

        Come negare a Wu Ming la cognizione di causa sulla metodologia del romanzo storico e la padronanza della tecnica?

        (e non è mera prodiga condiscendenza)

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    1. io infatti, ho sfidato i russi su questo romanzo dato i pareri contrastanti sui Wu Ming, io credo Manituana sia un vero capolavoro sia per contenuti che per forma e Altai vada letto anche solo per sapere che fine ha fatto il capitano Gert Dal Pozzo.
      Questo io lo ritengo più freddo, più cerebrale anche perché emerge secondo me una critica sociale molto calata nella contemporaneità (la Gioventù dorata di cui si parla ha troppi riferimenti all’attualità come pure l’uso della propaganda)

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  2. Io amo i Wu Ming per principio! Mi sono piaciuti sempre, finora (Q e’ un CAPOLAVORO VERO!), tranne che in Timira (che ho apprezzato come opera letteraria, ma non mi ha preso come stile di scrittura). Comunque grazie grazie davvero a Wu Ming 1 per essere intervenuto qui da noi! Mi sento onorata 🙂

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