Point Lenana

PointLenanasulMangart_thumbDevo confessare, sin dall’inizio di questa recensione, che il desiderio di leggere questo libro è nato sopratutto dalla necessità per me di trovare un po’ di respiro dalle tante boutades colonialiste che riempiono le mie giornate (sopratutto nel web). Non parlo solo della vecchietta che ti chiede, indicando tuo figlio “Dove l’ha preso, signora?”: parlo anche dell’immagine sempre più patinata e stereotipata, edulcorata e FINTA che abbiamo, in particolare, dell’Africa. L’Africa è tutta cattiva (povertà, “sottosviluppo”, malattie, carestie, violenza, integralismo religioso), oppure tutta buona (e qui scattano i bambini sorridenti, le mani del Tuareg che prepara il tè, i bellissimi Masai vestiti da cerimonia, le spiagge bianche di Malindi). L’immagine dell’Africa non è altro che un ologramma, un fastidioso collage di immagini spesso reiterate che ci si appiccicano alla retina.

Mi raccontò che i turisti danarosi si facevano portare dalla costa in elicottero, pescavano trote nel lago Rutundu e ripartivano soddisfatti, senza aver visto niente né conosciuto nessuno. Tutto impacchettato, massimo comfort, massima distanza dalla realtà. Sì, e scommetto che sono italiani, pensai. Andare a piedi? Dormire in baracche puzzolenti? Negativo, le lasciamo ai baluba quelle robe lì, si va mica in Africa per patire, noi. Patiamo già abbastanza in Italia, con le tasse, gli scioperio Noi si vive in prima classe. In elicottero da Malindi ci abbiamo messo meno che andare a Lugano: diritti sul massiccio, taaac, una pescatina, trote grosse così e ritorno, si fa prima a dirlo che a farlo e see you later, Monte Kenya! Il sole non era ancora tramontato che le trote già le mangiavamo in carpione a bordo piscina, libidine. Uè, pensa che ce le siamo cucinate da soli, io, il Nando e la Prissy, ché non ci fidavamo dello schiavetto. Gli abbiamo detto: sei bravo, Kunta Kinte, ma la cucina italiana lasciala agli italiani, te capì?

E questo è il primo punto.

Il secondo punto è il nostro passato coloniale. Non che l’Italiano medio conosca molto del passato coloniale altrui, per carità. Ma il nostro è avvolto in una spessa coltre di dimenticanza (più o meno intenzionale).

Rassicurazione dopo rassicurazione, cliché dopo cliché, il nostro passato proto-nazionale e nazionale diventa una pappa indifferenziata su cui gli italiani galleggiano da «brava gente», descritti sempre come vittime, anche quando storicamente furono carnefici. È il nostro «paradigma vittimario», l’incessante lagna su quante ne abbiamo subite, quante ne abbiamo patite, quanti sacrifici abbiamo fatto, quanti rospi ci siamo umilmente ingoiati. Quel che abbiamo fatto patire agli altri, i sacrifici che abbiamo imposto, i rospi che abbiamo cacciato nelle gole altrui, tutto questo svanisce, sim sala bim. Noi non abbiamo mai responsabilità di niente, è sempre colpa di qualcun altro.

Parlando di questi ed altri temi con le mia amiche Igiaba Scego e Giusy Muzzopappa, loro mi hanno consigliato Point Lenana. Ed hanno fatto bene! Perchè in questo libro RESPIRO a fondo. Leggo critiche alla Blixen,

Il «mal d’Africa» di Blixen era nostalgia per un’Arcadia dove si era superiori al proprio prossimo senza inceppi né sensi di colpa, permettendosi anche il lusso di esser «buoni» con gli inferiori. Era nostalgia per lo status di parasite in paradise.

Il nome «Karen» sulla mappa della nostra capitale ci rende più ridicoli ogni giorno che passa. Se una donna keniana fosse vissuta in Danimarca e avesse offeso i danesi nello stesso modo elaborato e insensibile in cui Blixen offese noi, Copenaghen non le avrebbe intitolato uno dei suoi più importanti sobborghi.

esegesi di Jomo Kenyatta,

Nella prefazione a Facing Mount Kenya, Jomo Kenyatta si era scagliato contro quegli «amici professionisti dell’africano» pronti a mantenere la loro amicizia per l’eternità, come un sacro dovere, a condizione che l’africano continui a far la parte del selvaggio ignorante, affinché loro possano monopolizzare il compito di interpretare la sua mente e parlare per lui. Per gente così, un africano che scriva un saggio come questo sta violando il loro territorio. È un coniglio divenuto bracconiere.

e poi, sopratutto, mi godo un libro ben documentato sul passato coloniale italiano.

Il sogno di nuovi imperi, di avventure in terra d’Africa, pullula di riferimenti sessuali, di immagini esotiche erotiche: l’Africa è femmina, terra da sottomettere come un uomo sottomette una donna, ma un uomo vero, mica come certi smidollati di oggi!

E si muore di fatica, perché gli uomini che conservano un filo di energia vanno a consumarsi nei lavori forzati. Li mandano a costruire strade, strade, sempre strade, per decenni gli italiani si vanteranno di avere costruito strade, tante strade in tutta l’Africa, bellissime strade. Senza le strade il territorio è un nemico, il migliore alleato dei ribelli, dei banditi, degli impudenti che infilano bastoni fra le ruote della «riconquista». Senza le strade si fanno brutte figure, si viene presi per il naso da pochi beduini con gli asciugamani in testa.

L’odio razziale del Mickey Mouse fascistizzato è comunque moneta corrente. Tutta la campagna d’Etiopia ne è imbevuta. Il nemico è costantemente disumanizzato e gli si nega ogni compassione. Dopo la battaglia dell’Endertà, di fronte a un cumulo di corpi, Bottai scrive sul diario: «Cadaveri di gente nera. Non commuovono. Questa morte di colore sembra mascherata».

Che insieme a Roma Negata, della bravissima Igiaba, ci aiutano a disseppellire non dalla nostra storia REMOTA, ma dal nostro QUOTIDIANO, quanto di coloniale è rimasto in noi.

Che bello sarebbe stato il fascismo, se avesse fatto solo la bonifica e non la guerra e le leggi razziali del ’38. Ma se avesse fatto solo la bonifica e non la guerra, non sarebbe stato il fascismo. Sarebbe stato un consorzio di bonifica. E di leggi razziste, lo abbiamo visto, ne aveva già fatte ben prima del ’38.

Nell’agosto 2012 (LXXXIX dell’èra fascista?), mentre scrivevamo questo libro, il comune di Affile (Roma) inaugurava un sacrario dedicato a Graziani, suscitando la collera delle comunità etiopi e degli antifascisti, oltreché stupore e proteste in tutto il mondo.

Come nel Giorno della marmotta del film con Bill Murray, la guerra della memoria riparte ogni volta dall’abc, dalla riscoperta dell’acqua calda storiografica. Non si riesce a sedimentare consapevolezza, a costruire sul già acquisito. È come scrivere sulla sabbia. Basti pensare alla querelle storiografica e mediatica sull’utilizzo dei gas nella Guerra d’Etiopia. Nonostante le testimonianze e i documenti disponibili già nell’immediato dopoguerra, come i telegrammi di Mussolini, Badoglio, Graziani e Lessona, per decenni un’opinione pubblica nostalgica e affezionata al mito degli «italiani brava gente» ha negato l’uso dei gas nella Guerra d’Etiopia. «Io non ho visto niente del genere» era l’obiezione più ricorrente tra i reduci d’Africa.

Largo spazio è dato ne libro alla storia di Trieste, della fine dell’impero austro-ungarico, del Primo con flitto Mondiale. Sono citati (molto a proposito) vari poeti guerrafondai, come Pascoli

A Pascoli, invece, restano solo cinque mesi di vita. Morirà ad aprile. E tra quanti si opponevano alla guerra, non pochi si chiederanno: ma chi gliel’ha fatto fare? Proprio lui che aveva scritto: «Il poeta è poeta, non oratore o predicatore, non filosofo, non istorico, non maestro, non tribuno o demagogo, non uomo di stato o di corte», proprio lui, dopo una vita spesa a cantare la natura e la vita dei campi, il fanciullino e l’uccellino, il vecchiettino e il lumicino, il sonnellino e il gelsomino, il rondinino e il biancospino, proprio lui che ha dedicato versi all’uccisione del suo babbino, proprio lui, cinque mesi prima di morire, doveva congedarsi con un inno alla guerra e all’invasione dei campi altrui, all’uccisione dei babbini altrui, all’orfanaggio dei fanciullini altrui?

e l’immancabile d’Annunzio.

Ho adorato tutto quanto ambientato in Etiopia, che è un luogo a me particolarmente caro.

Se una pecca c’è nel libro, è che nel seguire le multiple trame, i rivoli di questo immenso fiume, l’ordito della narrazione risulti un po’ scollegato.  Avevo avuto lo stesso problema col, se pur pregevolissimo, Timira.

Come madre di un afro-italiano, mi ha fatto male leggere certe cose

Il regime mise la panna nel caffè della legislazione razzista con la legge numero 822 del 13 maggio 1940 («Legge sui meticci»): ART. 3 Il meticcio non può essere riconosciuto dal genitore cittadino. ART. 4 Al meticcio non può essere attribuito il cognome del genitore cittadino. ART. 5 Il mantenimento, l’educazione e l’istruzione del meticcio sono a totale ed esclusivo carico del genitore nativo. ART. 6 Sono vietati gli istituti, le scuole, i collegi, i pensionati e gli internati speciali per meticci, anche se a carattere confessionale. Gli istituti per nazionali non debbono accogliere meticci che possono soltanto essere accolti negli istituti, nelle scuole, nei collegi, nei pensionati e negli internati per i nativi. I contravventori sono puniti con l’ammenda fino a lire tremila; può essere inoltre disposta la chiusura degli istituti. ART. 7 Sono vietate l’adozione e l’affiliazione di nativi e di meticci da parte di cittadini.

..ma ritengo che sia assolutamente necessario farlo, ed ancora.

Ho trovato meno interessanti, per mio personale approccio, le parti dedicate specificamente all’alpinismo, e quelle sulla vita di Felice Benuzzi “Post Africa”.

Nel complesso però, ai Wu Ming perdono tutto, e sopratutto, avevamo in qualche modo BISOGNO di questo libro. e così mi sono goduta il viaggio avanti ed indietro nel tempo e nei continenti.

Qui trovate la pagina dedicata a Point Lenana dai WU Ming, qui il blog su Point Lenana  e qui la mia “recensione per immagini” su Pinterest.

PS Se posso permettermi una domanda a WM1 e RS: perchè avete trascritto in nomi amarici come si faceva durante il fascismo e non avete usato una trascrizione più comprensibile all’uomo contemporaneo?

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