Il sergente nella neve – Omaggio a Mario Rigoni Stern nel centenario della sua nascita

Inizio a leggere “Il Sergente nella neve” seduto al tavolo di un bar all’aperto in una torrida giornata estiva. Potrebbe sembrare il libro sbagliato, con 40 gradi che picchiano in terra e risalgono su prepotenti dall’asfalto. Fa caldo, ma il cortocircuito climatico alla fine mi aiuta ad estraniarmi. Già le prime righe mi portano in quell’altrove che cercavo e il racconto dell’alpino Mario Rigoni Stern, scritto in lager da prigioniero, poco dopo la ritirata di Russia del gennaio ’43, mi diventa subito vivido nella mente.

Mi cattura immediatamente il ritmo e la verità del resoconto, il linguaggio vivo e privo di enfasi, il candore dei personaggi. Inizia a risuonarmi in testa la musica del dialetto italiano del nord parlato dai commilitoni, mescolato con le parole russe evocate per descrivere il paesaggio e i luoghi in cui si svolge la vicenda. Il racconto, prima, della guerra di trincea nel “caposaldo” e poi della ritirata a piedi, migliaia di chilometri attraverso la steppa Russa. Incalzati dal nemico nella “sacca”, un territorio ostile, desolato e devastato dalla battaglia, fatto di fango, neve, ghiaccio, nulla e poi boschi di betulle bianche e villaggi incendiati. Le poche, povere “Isbe” rimaste in piedi, abitate solo da donne, vecchi e ragazzini nascosti come topi, dove le truppe allo sbando trovano occasionalmente rifugio e ospitalità. Tutti, Italiani e Russi, soldati e civili, accomunati dalla guerra, dalla fame, dalla fatica sovrumana e dal freddo. Unico motivo per resistere è l’anelito di tornare a casa. Ritornare alle care e miti vite di montanari, pastori o contadini, evocate nel ricordo dai soldati, quasi tutti strappati dalle baite natie e dai pascoli verdi degli altopiani alpini, con le mucche e i muli, la polenta e il latte appena munto, la pastasciutta, la camicia bianca pulita della domenica, il vino all’osteria e le fidanzate giovani e floride. Ora invece, ridotti come spettri coperti di stracci, coi talloni e le dita dei piedi in cancrena e perduti nell’inferno ghiacciato della steppa russa.

Come sappiamo dalla cronaca storica solo in pochi riusciranno a tornare.

Rigoni Stern scrive “Il sergente nella neve” a 22 anni, non è un intellettuale nel senso classico del termine, non è un borghese, ma un semplice alpino cresciuto fra i pastori e la gente di montagna, forse per questo la sua opera viene accolta inizialmente come testimonianza documentale, e solo successivamente riconosciuta per la sua qualità espressiva e letteraria. Mi chiedo se oggi si possa ancora raccontare una storia così estrema, potente, vera, umana? La lotta per conservare la propria umanità caratterizza ogni momento della vicenda, perché Rigoni Stern il suo candore e la sua morale naturale imparata sulle montagne, se li è portati immacolati fino in Russia, mai intaccati dalla propaganda e dalla retorica fascista. Partito soldato con l’entusiasmo e l’incoscienza giovanili di vivere un’avventura, si accorge presto della mostruosità della guerra e comprende di stare dalla parte del torto. È tutto un inganno, sono i russi che difendono la propria terra dall’invasione nazi-fascista, sono loro dalla parte della ragione. Per questo, quando verrà fatto prigioniero dai nazisti dopo l’otto settembre del ’43, si rifiuterà di arruolarsi coi repubblichini di Salò in cambio della libertà. Resterà prigioniero in un lager nazista fino alla liberazione da parte dell’armata rossa nel ’45. Saranno quelli che credeva i nemici russi a liberarlo dalla prigionia inflitta dall’ex alleato nazista. Finito di leggere mi viene voglia di cercare materiale dell’epoca e trovo sul web un film girato da Blasetti “La Lunga Strada del Ritorno” ( https://www.youtube.com/watch?v=3o56v4XhTZ8 ) che raccoglie interviste ai reduci. C’è anche un intervista a Mario Rigoni Stern. È ancora giovane, ha gli occhi buoni e un sorriso allegro, un pizzetto un po’ da guascone, parla all’osteria, davanti ad un bicchiere di vino, i modi fieramente popolari, con forte accento, la camicia a scacchi e la giacca di lana pesante. Gesticola e racconta la sua storia con la lingua dei montanari, proprio con la voce che immaginavo avesse mentre leggevo “Il sergente nella neve” e anche i vecchi gli stanno intorno a sentirlo coi bicchieri e il fiasco di vino, ha il viso pulito e dignitoso, parla da giusto. Sembra sereno e allegro. Guardo un altro filmato, è una intervista del 2006, ora si vede un uomo vecchio, con lo sguardo stanco, quasi burbero, la voce e i modi ancora decisi ma rallentati dall’età. Ormai è riconosciuto come un importante scrittore, anche come intellettuale, ha raccontato molte altre storie, di boschi, di uccelli, di stagioni, di caccia e non si è più spostato dalla sua Baita se non per ritirare premi. Invita i giovani ad avere il coraggio di dire no! No a chi dice di fare cose che vanno contro la propria coscienza:“Seguite solo la vostra voce, è molto più difficile dire no che si”.

Un invito a riconoscersi nel prossimo, anche in quello che viene indicato come il nemico e a restare umani soprattutto nella difficoltà.

Paolo Cartoni

 

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