“È una saga familiare o un romanzo su una fattoria? È una commedia o una tragedia?”: questo si chiede Anton, uno dei tre fratelli protagonisti del libro, in una nota del suo romanzo rimasto incompiuto.
Ma è Galgut stesso che parla del suo romanzo?
Comunque, ecco “cosa è in grado di fare la mente con la natura grezza della vita quando è sospesa nel sonno”, sembra la risposta.
È anche un romanzo sulla morte, che colpisce ogni capitolo come un “buco nero” che attira e risucchia tutto e tutti; con la sofferenza che provoca nei vivi non tanto per i morti quanto per se stessi: il corpo, con la sua “orribile natura carnosa”, ricorda anche a chi se ne infischiava della morte che “giaceranno lì anche loro, svuotati di tutto, solo una forma”. Una morte che ha tratti comuni in ogni capitolo, sottolineati da parallelismi, nonostante la girandola di fedi e funzioni religiose.
L’aspetto più interessante di questo libro, secondo me, sono i personaggi, compresi quelli di contorno, presentati senza lunghi excursus, tratteggiati il giusto, con immagini – fotografie, anche direttamente con frasi o pensieri in cui passano repentinamente a parlare in prima persona.
Coriandoli di personaggi, che vorticano, si intrecciano, rimbalzano dall’uno all’altro, saltando tra diversi punti di vista nella stessa pagina. Altre volte l’autore si rivolge a loro, chiamandoli, in seconda persona: “povera, sbagliata Astrid!”. Altre volte, parla a noi lettori, in modo distaccato con un “voi” o partecipe con un “noi”, oppure parla da solo come “io” (“non lo conosco abbastanza bene da chiedere”).
I vari passaggi di persone grammaticali e punti di vista è sicuramente un elemento particolare della scrittura di Galgut, che rende vivace la narrazione. Il personaggio seppur secondario delineato con maggior ironia è il pastore protestante / approfittatore, che appare a inizio libro come “un uomo grosso e morbido”, dall’aspetto “accartocciato, perché sua sorella Laetitia, che si prende cura di lui in casa, non è particolarmente abile con il ferro da stiro”; diventa ancor più una macchietta più avanti, con una rotondità “che si adagia comodamente su di lui”, e soprattutto il grottesco orologio parlante che suona nei momenti più sbagliati. D’altra parte, l’autore ci avvisa in esergo con una battuta di Fellini, a cui sarebbe stato detto da una donna “con un pezzo di naso d’oro” e una scimmietta: “ma perché nel suo film non c’è neanche un personaggio normale?”.
Altri personaggi diventano le case, in primo luogo la fattoria, “un grande guazzabuglio di posto, uno stile incollato all’altro, come un ubriaco con addosso stravaganti capi di abbigliamento”. Una casa quasi umana, che respira, apparentemente inerte, anche se fa leggeri movimenti con la luce del sole che passa nelle stanze, “contraendosi là, emettendo piccoli schiocchi, scricchiolii e rigurgiti, come un qualunque vecchio corpo”. E in secondo luogo casa Lombard, dove vive la domestica Salome, oggetto della promessa del titolo: “una dimora minuscola e storta, che vale a malapena l’angoscia di volerla”.
Le vicende si svolgono dal 1986 al 2018, con salti di vari anni fra i capitoli, abbracciando quindi l’ultima – complessa – parte della storia del Sudafrica. Si comincia in pieno apartheid, con lo stato d’emergenza che “incombe sulla terra come una nuvola scura e le notizie che vengono censurate”, le persone arrestate e detenute senza processo.
Il momento chiave del passaggio storico alla democrazia estesa a tutte le etnie, tanto temuto dai bianchi al potere, viene solo ricordato successivamente da Astrid: “invece non è successo niente e tutti sono andati avanti come prima, solo che è stato più bello perché c’era il perdono e non più i boicottaggi”.
Si passa però dal Paese delle grandi speranze, dove tutto è possibile, a un Paese di “pazzi e indigenti”, con tassi di criminalità alle stelle, in cui i sudafricani “si uccidono a vicenda per divertimento”; con quartieri in via di sviluppo dove la classe media povera viene “murata dentro”. Fino all’ultimo periodo, con gli enormi debiti dovuti alla corruzione, da cui blackout frequenti, mancanza d’acqua, “l’unità nella diversità” che si è dimostrata valida solo per ricchi e potenti, indipendentemente dal colore della pelle, mentre “sui marciapiedi, sotto i ponti, ai semafori, c’è una folla crescente di derelitti, impoveriti e mutilati, che brandiscono le proprie ferite”.
In conclusione, personaggi interessanti e sfaccettati, scrittura piacevole e imprevista, un occhio clinico e cinico alla storia, ma… non è scatta una vera scintilla, come se l’autore non sia riuscito a trascinarti dentro fino in fondo, un senso di mancanza, per cui non il miglior Booker Prize degli ultimi anni.
Titolo: La promessa
Autore: Damon Galgut
Editore: e/o
Lunghezza stampa: 288 pagine
Prezzo: €18
ISBN: 9788833574103
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