#5libriacatena come se foste il primo uomo

 

Di questi tempi s’è parlato molto, e per delle ottime ragioni, della vita difficile che han fatto gli artisti durante i lunghi mesi di lockdown in cui tutte le loro attività, indicate come non essenziali, sono state messe all’arresto totale o parziale.

Si sono ritrovati inchiodati i professionisti delle arti vive, quelle da palcoscenico, delle arti performative e figurative, arti maggiori o arti minori, arti applicate o arte tout court.

Ma perché “non essenziali“?

Che cos’è il talento, cos’è l’espressione dell’arte?

Ne hanno scritto tanti autori, suggerendoci che la risposta a queste domande non è univoca.

Ne “Le straordinarie avventure di Pentothal”, pubblicato a puntate tra il 1977 e il 1981 sulla rivista Alter Alter, Andrea Pazienza ha disegnato un intermezzo fulminante del giorno in cui ha ricevuto in dono dalla natura il disegno.

È tra le ultime pagine, un capolavoro, pagina autoconclusiva che si inserisce nel respiro d’insieme senza note stonate.

Quel giorno Pazienza aveva previsto di darsi al banditismo insieme agli amici ma è miracolato e non può andare perché deve imparare a fare i righi diritti.

I righi diritti, lo posso dire per esperienza personale, si devono fare davvero, in quelle poche scuole che ancora esistono dove si va ad imparar l’arte.

Quando avevo ventitré anni, giovane artista di belle speranze, ho frequentato un corso di pittura ad olio in una vecchissima e celeberrima scuola Brusselese, alla quale mi ero iscritto per imparare a dipingere come i primitivi fiamminghi; la prima cosa che ho dovuto fare, per una settimana almeno, è stato tenere a bada i crampi alla mano mentre praticavo per ore le linee parallele verticali, a mano libera.

Nel suo romanzo Un mondo a portata di mano, dove si scopre che il talento, sotto tutte le forme che prende, costa fatica, Maylis de Kerangal racconta la storia di una ragazza che approda giovanissima proprio in quella scuola che ho frequentato anch’io; dei giorni e delle notti passate ad integrare il gesto, a disciplinare l’occhio, a far tacere la mente durante le ore in cui, “[…] come dice un antico proverbio, tre dita tengono la penna, ma il corpo intero lavora. E dolora.” (Umberto Eco, il nome della rosa).

È la storia di un mestiere da dinosauri, che appartiene al passato senza essere estinto, il mestiere di decoratore di pareti e di soffitti, il pittore di trompe-l’œil.

La storia della pittura tutta intera è accompagnata da questi decoratori che spesso riprendevano le composizioni dei capolavori più conosciuti e le cui riproduzioni sono in certi casi la sola testimonianza di capolavori altrimenti perduti.

Ne parla lo storico dell’arte Federico Zeri in uno dei suoi interventi, pubblicato in volume nel 1985 (“Dietro l’immagine).

“[…] le botteghe di decoratori di soffitti e di pareti che fino ad una cinquantina di anni fa erano piuttosto frequenti nell’Italia sia centrale sia settentrionale e nella Francia meridionale. Botteghe di girovaghi i quali, con una spesa minima, decoravano ad affresco i soffitti delle stanze con motivi che spesso includono i riflessi della grande pittura dell’ottocento”.

Oggi le botteghe sono quasi tutte scomparse e i decoratori lavorano spesso per il cinema, il teatro e il patrimonio; ma è un mestiere antico, di quelli che non scompaiono, come i mercenari e le prostitute.

Il romanzo di Kerangal segue le tracce della protagonista lungo gli anni dell’apprendistato e quelli dei primi cantieri; restituisce l’immagine di un’esperienza della pittura come pratica quotidiana, ci ricorda che le sostanze coloranti, pigmenti o tinture, hanno dei nomi e delle proprietà che conviene rispettare, che dietro ad ogni artigianato sta una tecnica e che la vita dell’artigiano può essere sorgente di un’immensa libertà, se se ne accettano i limiti, la pesantezza, gli obblighi e i tempi, a partire dall’asciugatura delle velature fino alle precedenze ed alla gerarchia degli strati sugli strati, perché il risultato finale non sia rovinato da un cretto intempestivo, perché i pigmenti non si separino dal medium, ossidandosi e perdendo la brillantezza ed il tono, perché l’olio di lino non ingiallisca, e la pellicola pittorica non si stacchi dal suo supporto rovinando irrimediabilmente l’opera.

Questo romanzo ci ricorda che l’artigianato è tutto fatto di materia, carne e sangue, pesante come l’esistenza (quella di cui parla Jean-Paul Sartre, La nausea, 1938).

Di carne e sangue come ogni mortale è fatto il sommo pittore Jan Van Eyck.

Nel romanzo di Jean-Daniel BaltassatLe valet de peinture” (2003), Jan Van Eyck, alla fine dell’anno 1428, si vede affidare dal suo patrono e protettore, Filippo di Borgogna (Philippe Le Bon), l’incarico di intraprendere il lungo viaggio verso il Portogallo per dipingere il ritratto dell’infanta Isabella, principessa della casa reale portoghese e promessa a diventare duchessa di Borgogna; i due fidanzati non si sono mai visti e il buon Filippo s’interroga sul viso, il carattere e la presunta verginità della donzella in questione.

Jan Van Eyck arriva a Lisbona preceduto da una solida fama di maestro di pittura ma anche di alchimista; le competenze di pittore, chimico e colorista su cui può contare – acquisite grazie al tirocinio fatto con il fratello Hubert per i più grandi committenti del loro tempo sono già leggendarie in tutta Europa e si confondono ai rumori, più o meno fondati, sulla magia che guida il suo lavoro: si dice di lui che faccia uso di una “camera obscura” o “camera lucida”, misterioso strumento ottico che permette di riprodurre in pittura la immagini del mondo con una fedeltà fino ad allora mai vista.

Ma usava veramente Jan Van Eyck, nel 1428, dei procedimenti ottici per riprodurre le immagini? Non lo sappiamo. Ci sono teorie solidamente fondate per sostenerlo ma le prove concrete non sono sufficienti.

A questo proposito, vedete la teoria detta di Hockney-Falco (“Secret Knowledge” di David Hockney, 2001).

Sono gli stessi anni in cui Van Eyck mette a punto la tecnica che avrebbe generato quella splendida stagione della pittura che chiamiamo “dei primitivi fiamminghi”.

È verso la metà del libro, quando la delegazione inviata da Filippo di Borgogna indugia a Tolosa, in attesa di riprendere il viaggio.

Jan, in compagnia del paggio Makhiel sta mescolando i suoi pigmenti con olio di lino e diverse essenze; aspetta a lungo per vedere se la sostanza colorante non tenda a separarsi dal medium. Poi inizia a dipingere.

“Febbrilmente, senza tregua, senza una parola o un momento di disattenzione, dipinge il ritratto di Marguerite. Il che prende tre ore buone. Quando depone i pennelli gli occhi di Makhiel sono fissi ed attoniti. Il viso della donna che ricopre oramai il fondo è talmente vero che si crederebbe di conoscerne i segreti. L’ironia del suo riso, lo scorno che si indovina nei suoi occhi, la dolcezza del suo alito. Quel profumo violento che porta in eccesso, così come il suo orgoglio e la sua intransigenza, tutto è già lí. […]

“Chi è? sussurra Makhiel con una voce reverente.

-Nessuno.

-Nessuno?

-Per te, nessuno” mormora Jan con la più grande serietà.

Il suo sguardo troppo lucido contraddice la calma e l’apparenza esausta che vorrebbe darsi mentre si asciuga meticolosamente le dita con uno straccio di lino.

“Perché averla dipinta allora? insiste Makhiel

-Perché è un viso difficile. Perché sto aspettando un miracolo e perchè sono superstizioso […] Non cercar di comprendere. Non ci riusciresti.

-Che cosa si deve fare allora?

-Aspettare

-Aspettare cosa?

– Che si asciughi. Tu non sei obbligato. Puoi andare a riposarti, non ho bisogno di te”.

Jan Van Eyck aspetterà tutta la notte. Piantato cocciuto davanti al suo quadro aspetterà di vedere se il medium che ha mescolato finisca per asciugarsi mantenendo la trasparenza, la precisione, la tessitura e lo splendore che lui ha dato a quel volto. Vent’anni di pratica, di tentativi per superare le tempere all’uovo ed alla caseina che si usavano fino allora. È il compimento di una vita, la nascita della pittura ad olio, una pittura fatta di luce.

“Essere artisti” secondo Jed Martin, che avrebbe ripetuto la stessa cosa in quasi ogni intervista che avrebbe poi rilasciato una volta diventato celebre, “essere artisti, ai suoi occhi, significava prima di tutto essere sottomessi. Sottomessi a dei messaggi misteriosi, imprevedibili, che si doveva, in mancanza di una migliore definizione e di una qualunque cedenza religiosa, definire come delle intuizioni.”

Lui, di sicuro non è fatto di carne e di sangue.

Jed Martin,  l’artista di cui ci parla Michel Houellebecq nel suo straordinario romanzo “La carta ed il territorio” non è nemmeno un artigiano, non si fa carico della fatica dell’apprendistato, è in grado di produrre delle opere di altissimo valore formale in tutte le discipline nelle quali si mette all’opera: fotografo prima, poi pittore e via via passando per altri media, fino all’età avanzata, la vecchiaia e poi la fin di vita, che per lui saranno ugualmente, in certo modo, capolavoro.

Il personaggio di Jed Martin è un artista multiforme, disincarnato, si muove lungo il corso dell’esistenza con la pazienza chirurgica di un ragno, non sembra capace di soffrire, ma ci offre, attraverso la rappresentazione dell’artista ai più alti livelli del mercato occidentale dell’arte, dalla fine degli anni ottanta fino alla metà del XXI sec. dei livelli molteplici di lettura del mondo.

Verso la metà del libro, Jed è seduto al tavolo di un bistrot con il suo gallerista, Franz, che gli ha appena comunicato le quotazioni milionarie dei suoi quadri recenti, risultato delle offerte ricevute in galleria immediatamente dopo l’apertura della sua ultima esposizione. Fra le offerte ci sono anche quelle di diversi potenti della terra che offrono di pagare caro per un ritratto della mano dell’artista. Jed non risponde, ma “finisce di infilarsi la giacca poi prende il portafoglio per pagare.

“Sono io che ti invito…, dice Franz con una smorfia divertita, “non rispondere, non ne vale la pena, so esattamente che cosa mi diresti. Mi chiederai di riflettere; e tra qualche giorno mi chiamerai per dirmi che rifiuti. E poi smetterai del tutto. Comincio a conoscerti, sei sempre stato così, già all’epoca delle carte Michelin: lavori, ti ostini nel tuo angolo per anni; e poi, non appena il tuo lavoro viene esposto, appena accedi al riconoscimento, lasci cadere tutto.

– Non è la stessa cosa. In questo caso stavo già cominciando a vacillare nel momento in cui ho lasciato perdere il quadro di ‘Damien Hirst e Jef Koons mentre si spartiscono il mercato dell’arte’.

– Sì lo so; è anche per quello che ho deciso di organizzare l’esposizione. Sono contento d’altronde, che tu non abbia portato a termine quel quadro. Eppure mi piaceva molto, l’idea, il progetto aveva una pertinenza storica, era una testimonianza piuttosto giusta sulla situazione dell’arte a un dato momento. C’è stata, in effetti, una specie di spartizione, da un lato il fun, il sesso, il kitsch, l’innocenza; dall’altro il trash, la morte, il cinismo.

Ma nella tua situazione sarebbe stato per forza interpretato come l’opera di un artista di secondo piano geloso del successo dei confratelli più ricchi; siamo in ogni caso ad un punto in cui il successo in termini di mercato giustifica e rende valida qualsiasi cosa, prende il posto di tutte le teorie, nessuno ormai è capace di guardare al di là, assolutamente nessuno. Adesso quel quadro te lo potresti permettere, sei diventato l’artista francese più quotato del momento; ma io so che non lo dipingerai, perché passerai ad altro. Magari smetterai semplicemente di fare dei ritratti; o abbandonerai la pittura figurativa in generale; o la pittura tout-court, magari ritornerai alla fotografia, non ne ho idea.

Jed rimase in silenzio”.

La carte et le territoire è un libro filosofico che riprende un tema fondamentale della storia del pensiero occidentale, quello della relazione complessa tra il significato, le territoire ed il segno, la carte, e questo tema si sviluppa verso la relazione tra il gesto e l’opera d’arte, tra l’artista e la sua opera, tra l’epoca e la sua cultura. Un romanzo scritto, secondo il suo autore “per vincere il Goncourt”.

È anche un libro straordinario che mette in scena un artista, e a ben guardare, due artisti e su che cosa possa significare questo status nel corso di una vita, nel mondo e nel mercato dell’arte odierno.

Ma com’era la risposta alla stessa domanda un secolo fa?

Daniel-Henry Kahnweiler è stato il gallerista che ha per primo creduto nella produzione pittorica di Pablo Picasso, Fernand Leger, Georges Braque, Juan Gris, quelli che più tardi avremmo chiamato i Cubisti.

In “Mes Galeries et mes Peintres“, raccolta di interviste realizzate dal giornalista radiofonico Francis Cremieux, trasmesse dapprima nel 1961 e poi pubblicate in edizione ampliata nel 1982, il gallerista di Picasso descrive un rapporto estremamente scarno dell’artista di fronte alla sua propria vita: “Picasso mi ha detto, molto tempo fa, vorrei vivere come un povero, con tantissimi soldi. […] Picasso voleva vivere come un povero, continuare a vivere come un povero, ma essere sicuro dell’indomani, è questo che voleva dire: non avere più alcuna preoccupazione materiale”.

E più avanti: “Diciamo che se si è sinceri, non si può fare altrimenti che essere uomo del proprio tempo. Ora, Picasso è più che sincero, si confessa tutto il giorno. Tutta la sua arte è confessione. Il grande difetto della nostra epoca è che molte persone vogliono fare qualche cosa di nuovo. Non c’è niente di più assurdo. Mai i cubisti hanno pensato a fare qualche cosa di nuovo. Hanno fatto una pittura. Picasso, Braque, Leger, Gris, hanno praticato una pittura. È stata considerata nuova, ed è stata chiamata cubismo, ma mai si sono messi davanti al cavalletto dicendo: Voglio fare del cubismo, voglio fare qualcosa di nuovo”.

E ancora: “bisogna imparare, bisogna sempre imparare a leggere la pittura. Vi ho già detto all’inizio delle nostre interviste che la pittura era una scrittura: ma ogni scrittura è una convenzione, e bisogna che questa convenzione sia accettata e che siamo stati disposti ad imparare a leggerla”.

E più avanti ancora, parlando dei suoi artisti: “ciascuno di loro si è mostrato per quello che era: non l’eternità, ma l’epoca li ha cambiati”.

“Tentate, come foste il primo uomo al mondo”.

Sull’arte e sulla pratica dell’arte ogni autore ci svela dunque qualcosa di comune e poi di volta in volta sorprendentemente sfaccettato.

Chi meglio di tutti ha espresso un punto comune su questo tema è Rainer Maria Rilke, nelle Lettere ad un Giovane Poeta, pubblicate nel 1929.

È tra le prime pagine della raccolta, verso la fine della prima lettera che Rilke scrive in risposta a quella, piena di ammirazione, che gli ha indirizzato il giovane Franz Kappus nel 1903.

“Voi domandate se i vostri versi siano buoni.

 Lo domandate a me.

L’avete prima domandato ad altri.

Li spedite a riviste.

Li paragonate con altre poesie e vi inquietate se talune redazioni rifiutano i vostri tentativi.

Ora (poiché voi m’avete permesso di consigliarvi) vi prego di abbandonare tutto questo.

Voi guardate fuori, verso l’esterno e questo soprattutto voi non dovreste ora fare.

Nessuno vi può consigliare ed aiutare, nessuno.

C’è una sola via.

Penetrate in voi stesso.

Ricercate la ragione che vi chiama a scrivere; esaminate s’essa estenda le sue radici nel più profondo luogo del vostro cuore, confessatevi se sareste costretto a morire, quando vi si negasse di scrivere.

Questo anzitutto: domandatevi nell’ora più silenziosa della vostra notte: devo io scrivere?

Scavate dentro voi stesso per una profonda risposta.

E se questa dovesse suonare consenso, se v’è concesso affrontare questa grave domanda con un forte e semplice “debbo”, allora edificate la vostra vita secondo questa necessità”.

E poco oltre: “tentate come un primo uomo al mondo di dire quello che vedete e vivete e amate e perdete”.

Con dolcissima malinconia questo immenso poeta ci ricorda che il talento non é un dono ricevuto da madre natura un giorno, ma piuttosto un desiderio intimo, qualcosa in fondo, sufficientemente essenziale da non poter vivere senza seguirne il sentiero.

 

 

 

bibliografia

• Le straordinarie avventure di Pentothal, Coconino Press 2020

• Un mondo a portata di mano, Maylis de Kerangal, Feltrinelli 2020

• Il nome della rosa, Umberto Eco, Bompiani 1988

• Dietro l’immagine, Federico Zeri, TEA 1985

• La verità su Isabella infanta di Portogallo, Jean-Daniel Baltassat, Bompiani 2006

• La nausea, Jean-Paul Sartre, Einaudi 2014

• Secret Knowledge, David Hockney, Thames and Hudson 2001

• La carta e il territorio, Michel Houellebecq, Bompiani 2001

• Mes Galeries et mes Peintres, Francis Cremieux e Daniel-Henry Kahnweiler, Gallimard 1982

• Lettere ad un giovane poeta, Rainer Maria Rilke, trad. di Leone Traverso, Adelphi 1980

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