L’amico perduto

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Se è vero che per ognuno esiste un paesaggio dell’anima,
una determinata atmosfera,
un ambiente che suscita echi profondi
nei più remoti recessi del suo essere,
questo paesaggio era – ed è –
per me quello delle montagne del Preanger:
l’odore amaro degli arbusti di tè,
il mormorio di limpidi ruscelli sulle rocce,
le ombre azzurre delle nuvole sulla pianura.
Che la mia nostalgia di tutto questo
potesse essere lancinante l’avevo capito in quegli anni
in cui ogni contatto, ogni ritorno era impossibile.

È estremamente interessante questa riflessione del protagonista del libro, un ragazzo olandese, figlio di un direttore di una piantagione di tè. E lo è pensando alla storia della scrittrice. Hella Haasse, olandese, nacque nel 1918 e visse fino ai vent’anni a Giacarta, per poi trasferirsi in Olanda. Il libro uscì nel 1948, quando l’Indonesia  era in conflitto con l’Olanda per ottenere l’indipendenza, dopo che i giapponesi la conquistarono durante la seconda guerra mondiale. Era figlia dell’impero coloniale, quindi. E l’immagine evocata è quella di una lacerazione per la nostalgia provata per il suo luogo dell’anima, quello in cui passò la sua infanzia.

L’atteggiamento «coloniale», tanto spesso – e non a torto – criticato in patria nel dopoguerra, mi era estraneo. Il desiderio di tornare nelle Indie e di lavorare laggiù derivava soprattutto dal sentimento, profondamente radicato, di appartenere a quel paese in cui ero nato e cresciuto. Gli anni passati in Olanda, per quanto importanti, contavano meno, per me, della mia infanzia e del periodo di scuola a Giava.

La storia è quella  dell’amicizia tra il protagonista e Urug. Nascono insieme, crescono a stretto contatto, liberi di giocare e condividere le giornate nella lussureggiante natura dell’isola di Giava. Un’amicizia che sembra non conoscere confini, sebbene i due ragazzi siano, per estrazione sociale, letteralmente all’opposto l’uno dell’altro. Urug, infatti, è figlio di un indigeno, dipendente del padre del protagonista.

Una lettura che trasporta nelle foreste umide, dove i due amici vanno a giocare, dove si avventurano immaginando presenze oscure e prove da superare al seguito di Gerard, un impiegato della piantagione.

Quando scendeva il buio restavamo per un po’ intorno al fuoco che Gerard aveva aveva acceso davanti alla capanna e parlavamo in sondanese, com’era naturale data la presenza di Urug e Ali. In quei momenti il coolie, solitamente silenzioso e capace di passare così inosservato da sembrare parte dell’ambiente circostante, si rivelava un narratore nato. «Ascoltatelo», diceva Gerard con l’orgoglio di un impresario.«Conosce decine di storie». Ali non si faceva pregare. Si portava un po’ più vicino al fuoco e si stringeva intorno alle spalle la coperta a strisce. I suoi gesti erano solenni come se si trattasse di una cerimonia. Parlava sottovoce e senza quelle variazioni di volume e di tono che si considerano in genere indispensabili per poter definire qualcuno un buon narratore. Eppure non ho mai trovato un modo di raccontare storie così avvincente come quello di Ali. La sua voce aveva la stessa qualità del silenzio notturno intorno a noi, il tono delle cascate della foresta, del vento tra le cime degli alberi. Senza il minimo sforzo potevamo immaginare di trovarci in quel mondo crepuscolare di fiabe sugli animali, di miti su semidei ed esseri fantastici.

Un romanzo di formazione con due protagonisti i quali, nel medesimo istante, scoprono di aver superato quell’infanzia ricca di giochi e spensieratezza.

Quell’abbandono senza riserve all’acqua che mormorava e gorgogliava, il saltar su e il lasciarsi cadere tra le pietre, gli innumerevoli giochi che accompagnavano i nostri bagni era sempre stati tra le esperienze più intense della nostra infanzia. Con un sentimento simile a deluso stupore, però, ci rendemmo conto quel giorno che non riuscivamo più ad abbandonarci completamente al piacere del bagno. Forse questa affermazione è troppo netta. Per essere più esatti potrei dire: il bagno era ora – e sarebbe stato in seguito – niente più che una rinfrescante immersione, un’azione dettata dall’immediato bisogno di refrigerio. […] La differenza stava nel fatto che ora vedevamo il fiume, il nuotare, lo scintillio dell’acqua con occhi diversi, occhi che non parevano più capaci di guardare al mondo reale come un mondo di meraviglie. Il reame incantato in cui eravamo stati eroi ed esploratori era scomparso.

Sullo sfondo una madre infelice, un padre solo, entrambi incapaci di amare quel figlio che trova conforto solo nella presenza dell’amico. Due ragazzi che cresceranno insieme, ma con destini, forse, già da tempo scritti nelle pieghe della storia.

Come scrive Fulvio Ferrari, traduttore del libro e autore della postfazione, dietro la limpidezza, la cristallina semplicità di queste «memorie», stanno complessi mutamenti storici e culturali, sta la fine di un mondo e il travagliato inizio di un altro. La vicenda dell’amicizia tra il ragazzo olandese e quello indonesiano riceve il suo spessore e la sua drammaticità dal fatto che i due giovani fanno parte di gruppi diversi, spinti dalla Storia in diverse direzioni […].

Titolo: L’amico perduto
Autrice: Hella Haasse
Editore: Iperborea
Prima edizione: novembre 2017
Traduzione: Fulvio Ferrari
Pag.: 160
Prezzo: € 16,00
ISBN: 9788870914887

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7 risposte a "L’amico perduto"

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  1. bellissima rece, Agata(e la tempesta), grazie; della stessa autrice, io avevo letto qualche anno fa “des nouvelles de la maison bleue” (versione francese), sugli stessi temi, trattati però prendendo spunto da una riunione di famiglia… un romanzo pure bellissimo, non perderò l’occasione di procurarmi questo amico perduto che ancora non conosco

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    1. Io non avevo letto nulla di lei. Il titolo mi ha attirata, forse per l’assonanza con l’altro grande romanzo di Uhlman, L’amico ritrovato e l’ambientazione giavanese. È curiosa anche la storia di come avvenne la pubblicazione, di cui racconta Ferrari in postfazione.

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  2. “Hella S. Haasse é considerata una fra le più significative scrittrici olandesi della sua generazione” dice la quarta di copertina di questo che ho letto io; aggiungo che é tenuta in gran conto anche dai belgi di lingua fiamminga (che poi é la stessa con poche varianti di quella che si parla nei paesi bassi)

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